
She, un docu racconta le operaie sfruttate nel 'modello Vietnam'

Presentato a Locarno. Reparato: "È industria 4.0 a cui puntiamo"
Trenta secondi a prodotto. Controllori pronti a registrare un video per segnalare ai capi la più piccola imperfezione. Verbali per le unghie di un millimetro troppo lunghe. E regole del tipo: "Vietato parlare". Dentro il polo industriale dell'elettronica di Bac Ninh, in Vietnam, la realtà quotidiana è questa. Nell'area, tra le più grandi al mondo, vivono e lavorano 100mila persone. Otto su dieci sono donne. E sono proprio queste lavoratrici le protagoniste di "She", il film documentario di Parsifal Reparato presentato il 9 agosto alla Semaine de la Critique del Locarno Film Festival. Reparato, antropologo che da 12 anni studia il contesto lavorativo vietnamita, è stato supportato nella scrittura da Michela Cerimele ed Emma Ferulano. "Di solito i media non possono entrare nei parchi industriali, perché sono terra delle multinazionali", spiega. Quella in Vietnam, afferma il regista, è una situazione in cui "lo sfruttamento è diventato di una raffinatezza encomiabile. Hanno creato il target perfetto: giovani, migranti. E donne, ossia l'anello più debole della catena, spesso vincolate dal fatto che dovranno avere dei figli e dopo qualche anno se ne andranno naturalmente". Ed è "questo modello quello a cui punta tutto il mondo, è l'industria 4.0 di cui parliamo", dice. Si tratta di operaie giovanissime, solitamente tra i 18 e i 25 anni. "Le più giovani sono obbedienti, non contraddicono i manager", spiega una di loro. La loro vita è fatta di turni massacranti di dodici ore, distanti da figli, mariti, genitori. Il docu si sviluppa su tre piani. Il primo è quello del sobborgo vero e proprio, con le abitazioni delle lavoratrici e il negozio di una parrucchiera che una volta era a sua volta operaia. Il secondo è quello della famiglia Tứ, in un remoto villaggio tra le montagne. L'ultimo è un laboratorio performativo in cui le donne riproducono per 12 ore di seguito le dinamiche della fabbrica, ripetendone i traumi ma pure rompendone gli schemi mettendosi in cerchio, facendo una pausa, parlando di ciò che provano. Sembra di vedere un gruppo di autocoscienza dei collettivi femministi degli anni '60 e '70. Ne esce un messaggio dolce e drammatico allo stesso tempo: l'essere felici di poter "dire cose di cui non si può parlare in fabbrica".
P.Munro--EWJ